giovedì 25 novembre 2010

L’OMICIDIO MUSSOLINI: La ricostruzione di Bruno Lonati

Un anno dopo l’uscita del libro di Urbano Lazzaro, viene alla luce un’altra clamorosa testimonianza, anche questa volta rilasciataci da un partigiano dell’epoca: Bruno Giovanni Lonati, nome di battaglia “Giacomo”. Ecco il riassunto della sua versione:

Lonati, che aveva avuto ordine di accompagnare un agente dei servizi segreti inglesi, tale “capitano John” a compiere una missione di guerra, (di cui all’inizio non ne conosceva ancora gli esatti dettagli, ma sapeva fin da subito essa comprendere fra l’altro il recupero di documenti molto importanti, ancora nelle mani di Mussolini), giunse a Bonzanigo di Mezzegra nella mattinata del 28 aprile, verso le 10:30 circa.
Lonati e John entrarono nella stanza dove il Duce e la Petacci stavano riposando e dopo alcuni botta e risposta su chi sono e cosa volevano, l’agente inglese esplode nei confronti del Duce chiedendo con foga dove teneva nascoste le carte (riferendosi ai documenti che aveva nelle borse). Mussolini affermò che gli erano state sequestrate tutte nel municipio di Dongo e che con se non aveva altro che alcuni ritagli di giornale; l’agente inglese mise comunque a soqquadro la stanza, senza però trovare nulla. Ad un certo punto John ordinò a Mussolini e alla Petacci di prepararsi, in quanto gli avrebbero trasferiti altrove. Mentre i due si stavano preparando, Lonati e l’inglese uscirono sul pianerottolo per coordinare i dettagli. Alla precisa domanda di Lonati sul da farsi, John rispose che bisognava fucilarli: a quel punto, il partigiano esterrefatto chiese:
“Anche la Petacci?” 
“Si, anche la Petacci.” rispose John
“E perché? Cosa c’entra lei?” insistette Lonati
“Perché conosce molti segreti di Mussolini e perché forse conosce il contenuto delle carte…”
Lonati si disse disponibile a fucilare il Duce, ma si rifiutò categoricamente di sparare a Claretta. Allora John rispose che se ne sarebbe occupato personalmente. A quel punto il partigiano rientrò nella stanza, mentre John s’allontanò per alcuni minuti. 
Mussolini, che nel frattempo si era convinto che i due erano venuti a portarlo in salvo, chiese di uscire sul pianerottolo per una boccata d’aria, lasciando così da sola la Petacci con Lonati.
Claretta, che invece aveva già compreso quel che stava per accadere, chiese a Lonati se per loro due era effettivamente finita: il partigiano, parzialmente mentendo, rispose affermativamente che per Mussolini era finita, mentre per lei no. A quel punto Claretta, rassegnata e con la morte nel cuore, chiese al partigiano: “Fate che non se ne accorga, non fatelo soffrire. Lui crede ancora di potersi salvare, almeno per ora. Sono stata io a convincerlo. Me lo promette?” Lonati rispose di sì e poco dopo uscirono.
I due vennero accompagnati in silenzio giù per la stradina fuori casa De Maria, poi, dopo circa duecento metri, vennero fatti svoltare a destra e posizionati contro un muricciolo. Per evitare che Mussolini sospettasse qualcosa, i due gli ordinarono di voltare la testa indietro per guardare dietro di se, in direzione della stradina, per controllare che non arrivasse nessuno. Fu una questione di secondi: Lonati si mise in posizione, a circa un metro da lui, e mirando dritto al cuore fece partire un primo colpo; in quello il Duce voltò lo sguardo incredulo verso di lui, e il partigiano lo finì con una scarica di quattro colpi.
Quasi contemporaneamente John si posizionò davanti alla Petacci e, mirando dritto al petto della donna, scaricherà deciso una raffica che la uccide sul colpo.
Erano le 11:00 del mattino del 28 aprile 1945.
Lonati, John e gli altri della missione, abbandonarono i cadaveri sulla strada, coprendoli soltanto con i loro cappotti e dopo aver fotografato i corpi, fuggirono via indisturbati.
Solo più tardi i partigiani comunisti giungendo a Bonzanigo s’accorgeranno dell’accaduto e sorpresi dagli eventi saranno costretti nel pomeriggio ad inscenare la finta fucilazione di villa Belmonte, per poter prendersene tutti i “meriti”.

Fonti tratte dal libro di Bruno Lonati: “Quel 28 aprile, Mussolini e Claretta: la verità” Ediz. Mursia

Il Comitato Verità e Giustizia per Mussolini

domenica 18 luglio 2010

L’OMICIDIO MUSSOLINI: La ricostruzione di Urbano Lazzaro "Bill"

Secondo la versione rilasciata dal partigiano “Bill” che nel corso degli anni ha cercato di raccogliere più testimonianze possibili rivolgendosi a quelle persone che erano stati suoi amici e compagni di lotta nel 1945, riporta, seppure in modo non del tutto preciso e comunque non completamente dimostrabile, la seguente ricostruzione:
Giungono a Bonzanigo di Mezzegra, nella mattinata del 28 aprile, Luigi Longo (il vero colonnello Valerio) accompagnato da Alfredo Mordini “Riccardo” e Michele Moretti “Pietro”. I tre salgono le scale che portano al pianerottolo fuori della stanza in cui riposano Mussolini e la Petacci; a quel punto Longo bussa con forza e quasi subito il Duce gli apre la porta chiedendo cosa succede. 
Moretti ordina a Mussolini di andar via subito con loro, in quanto dovevano trasferirlo altrove; qui però la Petacci si sarebbe insospettita, tanto da chiedere spiegazioni, ma Longo interviene bruscamente cercando di convincerla a rimanere sul posto. Claretta si ribella e allora, onde evitare ulteriori perdite di tempo, Longo acconsente che pure la Petacci segua Mussolini; ma una volta giunti in prossimità dell’auto, ordina a Mordini di fermarla. Puntualmente quest’ultimo obbedisce, puntandole il mitra contro: ed è qui che inizia il dramma finale....
Non appena si vide il mitra puntato contro, capisce che si tratta di una trappola e rivolgendosi a Mussolini grida: “Ben, ti vogliono uccidere!” Qui Mordini la taccia di puttana, ma Claretta non demorde ed afferra con entrambe le mani il mitra del partigiano; a quel punto Longo scende subito dall’auto e punta la pistola contro il fianco della Petacci, premendo a più riprese il grilletto senza però che parta un colpo, in quanto l’arma s’era inspiegabilmente inceppata. Allora infuriato ordina a Mordini di spararle. Il Duce, appena accortosi dell’accaduto, cercò di uscire dall’auto, urlando:
“Non commettete un simile delitto! Non potete, è una donna!”
Il capitano Neri, che si trovava anch’egli sul posto, cercò di portare via Claretta, ma lei rimase ancora afferrata alla canna del mitra di Mordini: improvvisamente partirono dall’arma alcuni colpi, che non si sa come raggiungono la gola di Mussolini, che di colpo s’accascia a terra, tenendosi le mani sul collo. Claretta a quel punto si getta verso Benito che era rantolante a terra ed urla disperata: “Non potete ammazzarci così! Siete dei vigliacchi!” 
Mordini allora va su tutte le furie e gridandogli “Maledetta puttana!” gli sparò addosso una raffica di colpi che la uccise all’istante. Intanto Mussolini non era ancora morto, e a quel punto Longo fuori di sé urla a Moretti di finirlo, che ubbidisce subito, scaricandogli addosso un’altra serie di colpi.
Longo, nero di rabbia, inveisce con i suoi per il fatto di non esser riuscito a portare il Duce a piazzale Loreto, vivo, “fregando” gli Alleati. Tale rabbia proseguì anche dopo, quando giunse a Dongo, dove non aveva ancora sbollito il nervoso per tutto l’inconveniente della mattinata (Petacci compresa) tanto da continuare a bestemmiare come un pazzo per gran parte del pomeriggio del 28 aprile.
Successivamente Longo ordinò di nascondere i corpi nella casa di un amico del Neri, fino alle quattro del pomeriggio, quando Lampredi e Audisio sarebbero giunti, insieme a Moretti, per fingere la fucilazione davanti al cancello di villa Belmonte.

Questa, ripetiamolo, la versione che “Bill” ha ricostruito sulla base delle testimonianze raccolte fra i suoi amici e compagni di lotta.

Fonti tratte dal libro di Urbano Lazzaro: “Dongo, mezzo secolo di menzogne” Ediz. Mondadori

Il Comitato Verità e Giustizia per Mussolini

giovedì 29 aprile 2010

LA PETACCI STUPRATA PRIMA DI ESSERE UCCISA?

Questa è la domanda che molti storici si sono più volte fatti negli ultimi anni, alla luce di inquietanti indizi che porterebbero ad avallare una simile ipotesi.
Fra le motivazioni principali che inducono a pensare a questa tesi, ci sono senz’ombra di dubbio tre punti:
1) l’aver impedito l’autopsia di Claretta (c’era forse qualcosa da nascondere?),
2) i due violenti colpi subiti quand’ancora era in vita (riscontrabili dall’autopsia del 1956)
3) l’inspiegabile assenza di un suo importante indumento intimo, che verrà goffamente giustificato dalla contraddittoria e ridicola ricostruzione di Audisio.

(dal resoconto a puntate de “L’Unità” del novembre 1945 – 19^ puntata. Valerio racconta:

“……La Petacci non riusciva a rendersi esatto conto di quel che stesse accadendo….. Ma ai miei sguardi sollecitatori, si affrettò a cercare i suoi oggetti personali, attardandosi a cercare le mutandine che non riusciva a trovare .<<Fa presto, sbrigati!>> e lei << Ma non trovo le mutandine! >>, >< Tira via, non pensarci….>>”

Questo dialogo così particolare lo riscontriamo una sola volta: non appare nel primo resoconto, non apparirà più nemmeno nel libro del 1975.
Al di là del fatto che troviamo essere pressoché improbabile che una donna si rivolga ad un perfetto estraneo in quel modo, confessando un particolare così intimo, specie in una situazione come quella... In ogni caso c’è da dire che nel corso degli anni Lia De Maria testimoniò più volte che quella notte Claretta ebbe dei problemi di salute, tanto che fu lei stessa ad accompagnarla nella stanza da bagno. Visto che aveva le mestruazioni, non si sarebbe mai separata “volontariamente” da quell’indumento così indispensabile in quelle circostanze. Insomma, la signora De Maria smentisce Audisio, affermando categoricamente che in quelle ore non si separò mai dalla sua biancheria intima. A quel punto, ancora una volta, l’ennesima volta, “Valerio” si vide costretto a rettificare la cosa, evitando così di menzionare nella sua successiva ricostruzione quel particolare dialogo, così spudoratamente falso.
Ma allora, se la Petacci non si era mai separata dalle sue mutandine, come si spiega che a Piazzale Loreto ne era totalmente priva? E come mai Valerio s’è premunito di menzionare questo particolare, all’apparenza irrilevante e comunque soltanto dopo che avvenne l’esposizione dei cadaveri a Milano? Bisognava forse dare una spiegazione al fatto che tutti quanti avevano visto il suo cadavere appeso, mancante di quell’indumento? Effettivamente tutti lo avevano visto eccome, e solo grazie all’intervento di un sacerdote che le chiuse la gonna con una corda si evitò che il vergognoso “spettacolo” di Piazzale Loreto prendesse forme ancora più infami.
Il dubbio però persiste: Claretta era senza per sua volontà (cosa da scartare)? O si è trattato di un gesto vigliacco di un partigiano, che spogliandola prima di appenderla per i piedi voleva “divertirsi” sbeffeggiando il suo cadavere? Oppure ancora, come molte voci hanno riportato, si tratterrebbe della testimonianza indiretta di uno stupro? Stupro che sarebbe avvenuto in quel lasco di tempo che separò presumibilmente la morte di Mussolini da quella della Petacci (circa un paio d’ore....)
Claretta non poteva essere senza quell’indumento se qualcuno non gliel’avesse forzatamente levato. E se dunque non è stata lei, allora chi è stato e soprattutto, perché? Di certo se Audisio ha voluto soffermarsi su questo particolare, con tutte le cose che invece avrebbe potuto raccontare, evidentemente un motivo c’era: e il motivo riguarda proprio il fatto che dopo l’esposizione dei corpi, alla vista di tutti, cineprese e macchine fotografiche comprese, erano i partigiani che dovevano a quel punto dare a tutti una spiegazione per quell’anomalia..... 
Così Audisio non trovò meglio da fare che zittire la cosa, inventandosi il fatto che Claretta già nella sua stanza era priva delle mutandine, tanto che lei stessa dichiarò apertamente davanti a tutti quegli uomini che erano entrati nella sua stanza, per di più estranei, che si trovava senza…..
Ma se Audisio era davvero così convinto che nel dialogo avuto con la Petacci lei disse esattamente quelle parole, perché non appena Lia De Maria lo smentisce, lui non menziona più la cosa (guardarsi il libro del 1975)?
A questo si aggiunge un ulteriore fatto sconcertante: perché il partigiano “Guido”,(nientemeno che Aldo Lampredi, guarda caso uno dei tre protagonisti di quelle famigerate ore…..) impedì fermamente che il 30 aprile si procedesse all’autopsia di Claretta? Cosa c’era da nascondere?
Forse bisognava occultare qualunque prova potesse in qualche modo ricondurre ad una presunta violenza sessuale perpetrata a danno della Petacci? Uno stupro che sarebbe la spiegazione logica dei strani segni riscontrati sul volto di Claretta, tipici di un’aggressione in piena regola, oltre che dell’incomprensibile assenza del suo indumento intimo.... 
Tuttavia la necroscopia della Petacci non verrà mai fatta eseguire, per espressa imposizione di Lampredi; egli, essendo stato presente quel giorno a Mezzegra e dintorni, sapeva benissimo quel che realmente accadde, al punto che s’oppose categoricamente all’esame autoptico di quella povera donna. Perché? Forse adesso un grosso sospetto lo possiamo anche avere…… 
In ogni caso è oramai difficile risalire alla possibilità di constatare un possibile stupro, poiché le analisi sul corpo della Petacci (del 1956) sono state effettuate in un tempo troppo lontano rispetto all’ora del decesso. Nell’arco di quarant’otto ore si sarebbe potuto ancora risalire ad una eventuale violenza sessuale, ma nel 1956 (anno in cui vennero riesumati i suoi resti) era troppo tardi... Solo attraverso l’analisi di una certa contrazione dei muscoli delle cosce, o di segni di resistenza alla penetrazione di vario tipo ecchimosico,(come lividi, graffi o morsi nelle zone vaginale, del seno e delle cosce), avrebbero potuto farci risalire all’ipotesi dello stupro. Il dubbio comunque resta...... come è assai singolare la storia che ci riconduce ad un capo partigiano della zona, Martino Caserotti 
“Capitano Roma”, uno degli uomini presenti in quel pomeriggio del 28 aprile 1945 a Mezzegra e dintorni, che a distanza di tanti anni si sarebbe vantato di conservare ancora le scarpe ed il foulard della Petacci. Come mai avrebbe voluto conservarli? Per quale “arcano” scopo? Se fosse vero, questo sarebbe un atteggiamento che ci ricorda molto quello dei maniaci che usano conservare oggetti, indumenti o parti del corpo appartenute alle loro vittime…. Si tratta forse di un cimelio storico o di un souvenir di quei giorni d’aprile, testimonianza inequivocabile delle gesta di quest’uomo? Si potrebbe allora pensare che da questi particolari derivi la prova di qualche atto di violenza, o addirittura la testimonianza indiretta che ci svela chi è stato il vero responsabile dell’uccisione di Claretta Petacci? O forse è la prova che è stato lui a sfilarle quell’indumento una volta deceduta, in segno di spregio? Chissà……. 
Forse non lo capiremo mai, come tuttavia non è chiaro nemmeno se i colpi inferti al suo corpo e riscontrati nell’autopsia del 1956, possano essere tutti da ricondursi ai calci inferti sul suo cadavere nella giornata di Piazzale Loreto, oppure se certe violenze fisiche fossero state attuate con lei ancora in vita. 
Dal resoconto del suo esame autoptico sembrerebbe che quasi tutti i colpi risultino post-mortem, eccetto due colpi, di cui uno sullo zigomo destro, rappresentato da un foro che sfondando ha fatto rientrare dei segmenti ossei e che nella necroscopia è stato ricondotto per forza di cose ad un violento colpo inferto quando la donna era ancora in vita; il secondo colpo risulta anch’esso in volto, che come conseguenza ha fatto partire due incisivi e che il medico riconduce ad un violento pugno inferto quando la Petacci era ancora viva. Resterà pur sempre qualcosa di anomalo, come ci conferma anche la volontà dei partigiani di impedire l’esecuzione della sua necroscopia; e ci ritornano di nuovo in mente pure le ricostruzioni fatte tempo dopo dal pseudo-protagonista Audisio, che si sofferma su un particolare all’apparenza irrilevante come quello delle mutandine che Claretta non indossava e che non riusciva a trovare....Chissà come mai...

Il Comitato Verità e Giustizia per Mussolini

giovedì 4 febbraio 2010

L'ORO DI DONGO E LA LUNGA CATENA DI OMICIDI...

L’ORO DI DONGO

E’ sicuramente l’oro di Dongo il principale fenomeno che ha scaturito centinaia di omicidi e violenze nei dintorni del lago di Como nei mesi successivi all’aprile 1945 (si parla almeno di 450 persone misteriosamente scomparse nel nulla oppure ritrovate poco tempo dopo senza vita, stando alle ricerche svolte dallo storico Giorgio Pisanò). 
Un fenomeno tale da creare ancor’oggi un muro indistruttibile di silenzi ed omertà, attraverso l’instaurazione di un vero e proprio clima di paura, che incombe minaccioso sia sui testimoni ancora in vita, sia sui loro eredi (ai quali si dice venga resa la vita impossibile sia in termini lavorativi che sociali, qualora osassero parlare). In sostanza, dalle parti di Como e dintorni esisterebbe ancora adesso una vera e propria cosca partigiano-comunista, non si sa bene capeggiata da chi, che agirebbe imperterrita a distanza di così tanti anni. Forse l’A.n.p.i. ne sa qualcosa e potrebbe illustrarci meglio la situazione, però questo immaginiamo sarebbe chiedere troppo....
Ma cos’era veramente quest’oro di Dongo, causa di tante morti ed infinito terrore? E’ presto detto.
L’oro che i partigiani scoprirono sui camion dei membri della R.S.I. fermati in prossimità di Musso, a pochi passi da Dongo, erano praticamente tutte le riserve auree dello stato repubblicano che Mussolini aveva provveduto a raccogliere, onde evitare che i tedeschi potessero fare razzia anche di quelle.
Furono ritrovati molti lingotti d’oro, svariate banconote in lire italiane e valuta straniera (franchi svizzeri e sterline), oro e preziosi di vario genere, compresi i beni personali appartenuti ai ministri della R.S.I. e alle loro rispettive famiglie. Fra i vari soldi c’erano pure quelli che il Duce aveva ricavato dalla vendita del giornale di sua proprietà “Il popolo d’Italia”.
Le stime fatte sull’ammontare di tutto quell’oro è ancor’oggi oggetto di discussione e forse non si arriverà mai a scoprirne l’esatto contenuto, ma una valutazione attendibile è quella che stabilisce il valore del tutto in ben 600 miliardi di lire dell’epoca!
Secondo i dati per così dire “ufficiali”, l’inventario che i comunisti presentarono ammontava a circa 128 milioni di lire, ma è chiaro che viste le evidenti ruberie di quei giorni, quel dato era del tutto inattendibile.
Secondo invece le ricerche fatte dagli americani, si risalirà ad una cifra di quasi 190 miliardi di lire. Sempre secondo la loro inchiesta, 400 milioni finirono nelle casse del Comando Alleato, mentre un centinaio di milioni venne dato al C.V.L.(Corpo Volontari della Libertà). Un’altra parte del denaro finì in “piccole” dosi ad alcuni partigiani locali (che in quelle ore avevano provveduto a rubare), o alle famiglie del luogo, come ricompensa che i ministri fascisti fermati a Dongo diedero in cambio di protezione per le loro famiglie. Tutto il resto finirà nelle casse del partito comunista italiano….. 
Come in molti confermeranno in seguito, su tutti Massimo Caprara, per vent’anni segretario di Palmiro Togliatti, quei soldi incassati illegalmente servirono come finanziamento illecito per:
1) acquistare la sede nazionale del partito comunista a Roma, ossia “Botteghe Oscure”
2) acquistare la tipografia per il giornale di partito “L’Unità”.
3) acquistare un albergo che servì per ospitare i quadri del partito provenienti da fuori città.
4) pagare le spese di mantenimento e successiva liquidazione di tutte le squadre partigiane garibaldine
5) finanziare le campagne elettorali del P.c.i. nel 1946 e nel 1948
6) il resto rimase come fondo cassa del partito, usufruendone nei decenni successivi.

Secondo alcune stime, i comunisti spesero circa 30 miliardi dell’epoca per finanziare le due campagne elettorali, mentre ne spesero 3 per l’acquisto di Botteghe Oscure….
Da non dimenticare inoltre che a questo s’aggiunge pure la vendita di una copia del carteggio “Churchill-Mussolini” che Togliatti consegnò personalmente a Churchill, dopo lunghe trattative, in cambio di “soli” due milioni e mezzo di lire dell’epoca.
Ad ogni modo, per quanti miliardi siano stati effettivamente spesi, ciò che è certo è che una grossa fetta rimase per sempre nelle casse del P.c.i. di cui ne giovò per decenni, forse fino ai giorni nostri (alla faccia dello stato sociale e dei lavoratori che loro stessi millantavano di voler aiutare e tutelare….)
Questo colossale furto, che non ha precedenti né seguito nella nostra storia, forse nemmeno in quella di tangentopoli, fu deciso dagli alti vertici comunisti e gestito presumibilmente, stando alle testimonianze ufficiali, dal dirigente di partito locale, tale Dante Gorreri, incaricato di amministrare l’oro di Dongo e tutti i documenti segreti del Duce rinvenuti nelle sue borse. 
Nessuno pagò mai per quel crimine contro lo stato e contro l’intero popolo italiano: a pagarne le conseguenze fummo invece solo noi italiani e le casse del nostro stato; ma soprattutto pagarono per primi coloro i quali persero la vita per porre in salvo quei soldi e consegnarli alle autorità....
Anche questa è una storia tutta italiana, vergognosa e per la quale andrebbe fatta una volta per tutte chiarezza e soprattutto giustizia (magari obbligando gli eredi politici del P.c.i. a restituire allo stato italiano tutti i soldi rubati alle casse dell’erario).

UNA LUNGA CATENA DI OMICIDI

Durante il periodo che andava dagli ultimi giorni di aprile del 1945 fino alla fine di quella torbida estate, tutte le persone che sapevano della morte di Mussolini, o dei documenti che il Duce portava con se, e soprattutto dell’oro di Dongo, vennero fatte per sempre “tacere” con un metodo molto in voga in quei giorni: un colpo in petto ed uno in fronte e gettato nel profondo lago di Como, così il corpo incamerava subito acqua ed affondava, senza mai più risalire……
Il testimone chiave di tutti gli eventi di Dongo, tale Luigi Canali, più conosciuto da tutti come il Capitano Neri, è fra le prime vittime della furia omicida dei comunisti.
Per chi non lo conoscesse, egli era il capo di stato maggiore della 52^ brigata partigiana di Como, e fu colui che portò il Duce e la Petacci a Bonzanigo di Mezzegra, nella casa di suoi amici fidati, i coniugi De Maria. Fu anche colui che visionò tutti i documenti che il Duce portava con se, e che tentò vanamente di porre al sicuro, ritenendo quelle carte di grande importanza per la storia e per la nazione. Ma soprattutto fu colui che si occupò inizialmente di censire tutto l’oro di Dongo e che tentò di consegnare alle autorità, ritenendolo di proprietà dello stato italiano. Le sue denunce contro le prime sparizioni di denaro, i tentativi di sottrarre alle grinfie comuniste tutti quei beni, saranno la sua condanna a morte.
Ma prima di Luigi Canali “capitano Neri”, toccò ad un altro partigiano di venir ucciso, anch’egli protagonista in quelle ore: tale Giuseppe Frangi, conosciuto da tutti come “Lino”, ossia uno dei due uomini messi a guardia di Mussolini fuori casa De Maria. Egli chiese di parlare col Neri, per rivelargli notizie importanti (si presume che volesse raccontare come avvenne esattamente la morte del Duce, visto che il Neri giunse a fatto già compiuto). Ma a quell’appuntamento non vi arriverà mai…..verrà assassinato la sera prima ed il suo corpo gettato nel lago…
Tempo dopo toccherà anche alla partigiana “Gianna”, fidanzata del Neri e, strana coincidenza, colei che per ordine del suo uomo, censì tutto il materiale sequestrato alla colonna fascista a Dongo. In quei giorni non si era rassegnata alla scomparsa del suo fidanzato, tanto che tentò di tutto per ritrovarlo e per scoprire la verità sulla sua fine. Forse si era troppo sbilanciata oltre, tanto che la sera del 23 giugno 1945 verrà vista salire su una motocicletta con due uomini: pochi minuti dopo qualcuno udirà delle grida ed alcuni colpi di pistola. Verrà così uccisa ed anche il suo corpo sparirà per sempre nel lago…..
Più avanti la furia assassina dei comunisti prese tutti coloro che sapevano o che si presumeva potessero parlare sugli eventi di Dongo: toccò ad Annamaria Bianchi, amica della Gianna, a conoscenza di molte sue confidenze. Quando iniziò a fare domande sulla scomparsa improvvisa della sua amica, sparirà nel nulla pure lei...
Subito dopo verrà ucciso anche il padre di Annamaria, Michele Bianchi, deciso a far luce sulla scomparsa della figlia. Ma altri vennero presi nella morsa omicida dei comunisti, per ragioni più o meno oscure: da Natalina Chiappo, staffetta partigiana della 52^ brigata Garibaldi, al partigiano “Biondino” (amico di Bill) che venne coinvolto con altri ragazzi in un incredibile e strano incidente, saltando in aria su una bomba che si trovava all’interno della loro barca; da Angelo Magni, amico del Neri, il quale aveva soltanto “osato” chiedere informazioni sulla misteriosa scomparsa del suo amico, fino alla sparizione del postino di Dongo, che a quanto pare era a conoscenza del luogo esatto in cui fu nascosto l’oro della R.S.I.
Tutti questi sapevano qualcosa, poco o tanto, sia sull’oro sparito, sia sui documenti del Duce, sia sulla reale fine che lui e Claretta fecero quel 28 aprile. Un anno dopo toccherà addirittura alle sfere più alte: per primo il giornalista del Meridiano D’Italia, Franco De Agazio, che nel 1946 venne assassinato solo per aver iniziato a pubblicare sul suo giornale una serie di articoli che stavano aprendo uno squarcio di luce sugli oscuri avvenimenti di Dongo ed in particolar modo sui nomi degli assassini del Capitano Neri e di Gianna. 
Poi, a distanza di anni, precisamente nel 1957, quando finalmente iniziò il processo per le morti di Dongo e per il furto dell’oro, uno dei giudici del processo, Silvio Andrighetti, il più deciso ed il più onesto, verrà trovato morto in ospedale, dopo esser stato ricoverato per un collasso: il suo decesso sarà bollato come suicidio…… 
Nel frattempo gli altri quattro giudici che componevano la corte si dimisero, abbandonando la carica assunta, sotto la singolare quanto patetica scusa dell’indisponibilità fisica…
Intanto il partito comunista, per proteggere i suoi uomini, aveva provveduto a far eleggere deputati i principali uomini coinvolti presumibilmente in quelle vicende, tra questi anche il famigerato Dante Gorreri….. 
La sospensione del processo, l’amnistia di Togliatti e l’immunità parlamentare che taluni individui ricevettero con l’elezione a deputati, fecero per sempre insabbiare le prove ed impedire definitivamente lo svolgimento del processo e quindi delle condanne. Il resto, come ricordato fin qui, i comunisti lo otterranno chiudendo per sempre la bocca ai testimoni più scomodi. 
Così, giustizia non sarà mai fatta ed i colpevoli per sempre impuniti e addirittura in alcuni casi premiati con onorificenze per “meriti” resistenziali....

Il Comitato Verità e Giustizia per Mussolini